ARCHITETTURE PISTOIA N°2 2007

DI PIANO IN PIANO.....PIANO PIANO

Tra dei vecchi nastri registrati, relativi a conferenze sui temi dell’architettura, una scritta riportata su una cassetta mi ha incuriosito: “11-2-85 interventi Giancarlo De Carlo e Luciano Pallini”; pur avendo la trascrizione del seminario “attualità e futuro delle aree ex Breda” promosso in quella data dal Centro Ricerche Urbane, ho voluto riascoltare gli interventi per cogliere dalla viva voce dei protagonisti, la passione le tensioni, le attese, nei confronti della “questione ex Breda”, a distanza di oltre venti anni, è ancora oggetto di attenzioni anche se l’intero insediamento risulta impoverito e meno suggestivo a causa del degrado e delle tante demolizioni effettuate. E’ un’operazione aperta nei confronti della quale si registrano più perplessità che condivisioni, relativamente all’obiettivo di realizzare un pezzo di città contemporanea, con un sistema di coerenze e correlata ad un tessuto già urbanizzato.

Quando facciamo riferimento al progetto De Carlo, dimentichiamo che l’operazione ex Breda rientrava in un processo di profonda revisione del modo di essere della città, in particolare con l’impostazione innovativa del nuovo piano regolatore (piano – programma). Luciano Pallini, Assessore all’Urbanistica di allora, uno dei pochi capace di comprendere la potenzialità strategica delle scelte urbanistiche, aveva ben chiari le relazioni e gli obiettivi da perseguire: “vogliamo offrire due proposte positive nei confronti della città” affermava, “innovando diversi settori: il progetto per l’area ex Breda che ci ha conquistato, è inteso come area di produzione culturale e non solo come fruizione, mentre quello dell’Arboreto inteso come grossa struttura impegnativa legata alla produzione tipica pistoiese, potenziando al contempo i servizi alle imprese. Ambedue le scelte ci introducono nell’area vasta non in concorrenza o in sostituzione di strutture già esistenti a scala regionale, ma introducendo elementi forti di novità che aggiungono e non intendono sottrarre alle realtà già esistenti.
Mi sono chiesto come mai, nei confronti di un programma così chiaramente delineato, che partiva dalla scala urbanistica fino a coinvolgere aree nevralgiche, per favorire uno sviluppo qualitativo dell’intera città e con degli interlocutori di primissimo piano De Carlo da una parte e Giovanni Battista Bassi dall’altro, tale ricchezza di potenzialità, irripetibile per una città delle dimensioni di Pistoia, sia stata progressivamente dilapidata per intraprendere strade più ordinarie che rischiano di invecchiare già prima della loro attuazione.

La prima causa è di natura politica: il motore innovativo della nuova impostazione del piano programma giunto alla stesura della fase preliminare (1990) con i piani guida, veri e propri approfondimenti su aree strategiche (area ex Breda, zona ovest , Arboreto, zona Candeglia – Fornaci e la fascia collinare di Collegigliato sino al parco Puccini), doveva procedere con tre stati di approfondimento e necessitava di un continuo pendolarismo tra la scala urbanistica e quella architettonica. Per fare questo occorrevano tempi più lunghi e dopo aver concluso la prima fase nel 1993, a pochi mesi dalla scadenza amministrativa, la maggioranza di allora decise che l’intero iter doveva essere chiuso prima delle nuove elezioni.

L’impostazione del piano programma fu riconsegnata nella mani di politici e tecnici di “provata esperienza” che in soli sei mesi trasformarono questa nuova potenzialità in prassi ordinaria basata ancora su regolamenti e dati dimensionali; in questi ultimi tempi abbiamo visto il materializzarsi di questa onda lunga, come ad esempio le recenti edificazioni sul viale Adua che sono i segni più eloquenti di tale impostazione. Non esisteva, quindi, più una cornice politica e una programmazione urbanistica, per inquadrare progetti ambiziosi come l’ex Breda e l’Arboreto: non a caso il gruppo incaricato di redarre il nuovo piano regolatore, coordinato dall’arch. Armando Barp, stretto collaboratore di De Carlo, non si rese disponibile per la stesura finale.

La seconda ragione del fallimento è di ordine culturale che chiama in causa l’intera classe dirigente e produttiva della nostra città, sostanzialmente indirizzata alla conservazione degli assetti esistenti, oltre ad avere un atteggiamento più propenso a coltivare il proprio orticello rispetto a quello di sostenere visioni di largo respiro.

La voce suadente di De Carlo, era assimilabile al suono del “pifferaio magico” che “voleva risuscitare una specie di emozione dei pistoiesi”, inizialmente conquistò molti, ma con il suo procedere, man mano vedeva diminuire l’interesse nei confronti dell’idea progettuale. Nel corso di qualche anno è venuto meno quel sostegno necessario per promuovere sia in sede politica che in quella economica, una proposta così innovativa e ambiziosa. Forse, dopo una prima fase piena di entusiasmi, è mancata un’opera di condivisione tesa a spiegare i vantaggi e le opportunità dei nuovi scenari, mentre in solitudine andava avanti solo la redazione tecnica delle soluzioni: questo era il compito prioritario della politica ma anche questo soggetto aveva scarso interesse ad innovare un sistema che sostanzialmente ha sempre assicurato il consenso.

Eppure ben chiari, riascoltando lo stesso De Carlo, risultavano gli obiettivi strategici da perseguire ma anche i rischi da evitare.

De Carlo concepiva l’area ex Breda come “un porto di attracco” all’intera città in cui vedere le cose in modo poliedrico “ trovo interessante che chi viene da lontano e va nell’area ex Breda esca (dal parcheggio sotterraneo) nella spina e abbia come prima visione straordinaria questo spazio di dimensioni inusitate, in equilibrio di rapporti e proporzioni venute fuori per caso, una vera porta della città: una delle cose che i cittadini raccontano e che i visitatori si portano nella memoria. Questo è il senso della città”.

Fondamentale risultava una corretta dialettica tra sistema pubblico e quello privato: “al potere pubblico il compito di controllare, regolare, promuovere – cosa che difficilmente accade - sottolineava; esso è capace di grandi opere ma non di avere quella flessibilità, quel senso di adattamento che permette di seguire i fenomeni della città”. Il problema non è di “calare le brache” e passare tutto al privato e favorire la speculazione: il potere è quello di stabilire dei rapporti, ottenere il meglio all’interno di una tutela pubblica che lasci iniziativa, flessibilità ai soggetti privati impedendo le speculazioni…. Un concorso di molte forze che il Comune contribuirà ad indirizzare”.

Era importante stabilire delle priorità non tanto per valutare gli effetti indotti di ogni fase realizzativa e scegliere poi di conseguenza. Tra le varie funzioni previste nel progetto alcune avrebbero generato indotti maggiori e lui stesso aveva stabilito delle priorità in tal senso:

  1. l’anello viario con il sottopasso ferroviario e il raccordo con l’autostrada;

  2. Stazione autocorriere e albergo: l’area era considerata una “cerniera doppia” rivolta su più fronti e inoltre queste funzioni risultavano appetibili;

  3. Teatro sperimentale –museo osservatorio della città: con la loro realizzazione sarebbe immediatamente chiara la qualifica del ruolo che Pistoia aspira, sarebbe chiaro dove vuole arrivare. Ambedue le opere, nel solito edificio vengono viste allo stesso livello di nobiltà e di partecipazione;

  4. Lo spazio fieristico nella cattedrale: spazio per mettere in vista la produzione, in cui ricercare nuove forme di organizzazione e di servizi alle imprese. L’edificio risulta integro (allora) e facilmente adattabile a tale funzione;

  5. Viale Pacinotti: operazione difficile poiché presuppone delle demolizioni, atto impopolare (perché non spiegato) non amato dalle amministrazioni; il viale è la reale connessione del centro storico con la città. Può rappresentare una grande vetrina per i vivaisti (nella città oltre l’Arboreto all’esterno), dimostrando di saper non solo “coltivare gli alberi come polli di allevamento, uno accanto all’altro” ma di usarli per rendere decorosa la città, attraverso l’uso intelligente ed immaginativo del verde”.

Quanto riportato non ha solo un valore testimoniale dal sapore nostalgico ma possiede ancora un’energia in grado di far considerare criticamente ciò che si sta tentando fare e soprattutto condizionare positivamente quello che non è ancora del tutto definito.



Dopo una stagione stimolante e ricca di suggestioni abbiamo assistito, da una parte alla neutra realizzazione della parte ovest, dall’altra ad una confusa ricerca di soluzioni più pragmatiche “ per chiudere la questione ex- Breda est”, tema presente di ogni campagna elettorale. Nel 1995 l’approvazione della “variante Stilli”, poi un’ulteriore variante approvata a fine 2005 con l’obiettivo di “tirare le fila”.

Molti capannoni sono stati demoliti, alcuni demoliti e ricostruiti riproponendo stanche logiche mimetiche mentre l’azione del degrado ha fatto il resto: siamo inevitabilmente giunti ad un reale svuotamento di logiche unitarie.

In particolare, con la variante Stilli, l’area ex Breda viene definitivamente declassata ad un’area contenitore in grado di accogliere tutte quelle funzioni di livello cittadino, al massimo di riflesso provinciale, che a causa di una carenza di programmazione urbanistica, non avevano trovato ubicazione altrove. Pur nella legittimità degli atti veniva sancita una congrua contropartita all’iniziativa privata, anzi in questo caso di un solo privato, prendendo le distanze da quel dialogo maturo, auspicato dallo stesso De Carlo, che doveva vedere il potere pubblico protagonista e non subalterno alle logiche del mercato immobiliare.

In questo processo di normalizzazione occorre segnalare due tentativi per elevare almeno il livello della qualità architettoniche delle opere pubbliche (tema assente da decenni nella nostra città): il primo ben riuscito con il concorso ad inviti e la successiva realizzazione della nuova biblioteca di prossima inaugurazione; il secondo di tutt’altro tenore con il seppellimento degli esiti del concorso nazionale per la nuova scuola media a cui hanno partecipato quasi cento studi e del quale non si è avuto neppure, come dovrebbe essere buona prassi, memoria con una degna pubblicazione.

I concorsi una volta banditi e selezionati dovrebbero essere realizzati, come avviene in gran parte delle nazioni europee.

Con le ultime determinazioni, ripartendo dall’impostazione della variante precedente, ma evidenziando in essa un eccessivo tono dimesso delle previsioni, prende corpo l’idea di rilanciare la vocazionalità dell’area come polo culturale e della conoscenza incentrato sulla oramai conclusa nuova biblioteca e sull’esigenza di dotare le facoltà universitarie, già operanti nella nostra città, di una sede idonea e di prestigio da collocare nell’attuale centro fiere e nell’edificio denominato “cattedrale”: su tale previsione, nell’aprile 2006, la Fondazione Michelucci, su incarico del Comune di Pistoia, consegna uno studio preliminare di fattibilità e delinea degli orientamenti progettuali. Con l’attuale piano tale vocazione culturale rimane confinata all’interno di un assetto generale dell’area di tutt’altro respiro.

Il grande asse centrale non ha caso è denominato “la spina”, quasi a rimarcare le difficoltà di centrare le soluzioni per una sua corretta ridefinizione- e che a mio avviso dovrebbe invece essere intitolata all’architetto pistoiese Giovanni Michelucci – nella nuova attuale configurazione, separa nettamente due visioni di città. Sul lato sud abbiamo una pluralità di funzioni riferite a una scala ampia (università, biblioteca, albergo centro congressi, questura - prefettura) con linguaggi architettonici tra loro poco relazionati ma comunque carichi di una propria coerenza progettuale, mentre sul lato nord è prevista la realizzazione di un consistente intervento prevalentemente di funzione residenziale connotato da una visione più ordinaria della scena urbana e dell’abitare.

Le due dimensioni così differenti si specchiano e in un certo modo segnalano alcune contraddizioni nella politica urbanistica attuata, non solo a Pistoia, negli ultimi decenni, in cui il pubblico si è guardato bene ad orientare il privato verso soluzioni architettoniche aggiornate e di qualità. A mio avviso, alla luce dei fatti, l’ultimo baluardo per delineare una soglia di urbanità dai tratti contemporanei, in grado di generare quei positivi e auspicati “effetti indotti” di cui parlava De Carlo è quello di definire in modo condiviso gli obiettivi e il carattere di tutti gli spazi aperti pubblici e privati e poi su tale base, mettere in competizione la qualità delle soluzioni attraverso lo strumento del concorso di progettazione.

Solo con una ricucitura dell’intero tessuto connettivo si potrà generare un effetto città in grado di generare una forte attrazione da proiettare anche nelle ore serali.

Su questo profilo, si inserisce la nuova sede universitaria e anche in questo caso, assumendo come base per il bando lo studio di fattibilità elaborato dalla Fondazione Michelucci, opportunamente calibrato, bisogna bandire un concorso, dato anche il livello di problematiche relative all’inserimento delle nuove funzioni con l’obiettivo di mantenere il fascino dell’attuale spazialità. L’esempio positivo della nuova biblioteca dovrebbe incoraggiare a perseguire con convinzione questa strada. A tale importanti previsioni si devono relazionare le funzioni di carattere di servizio e commerciale e in parte residenziale a carico del privato, già inserite all’interno della lottizzazione di prossima realizzazione, ma probabilmente per questo è già troppo tardi.

Alessandro Suppressa